Il Friuli visto dalle donne ‘tra cemento, fango e polvere’
Ringraziando Paolo Ermano e Andrea Zannini per aver aperto e rilanciato il dibattito, sento la necessità di intervenire senza presunzione di essere esaustiva ma con la sensibilità politica che mi è propria.
Ritengo innanzitutto che per uscire dalle crisi indicate non abbiamo bisogno della retorica delle radici, che considero un falso problema. Faccio mia la risposta che Pier Paolo Pasolini diede a Davide Lajolo, in un’intervista del 1959: “Nessuno di noi ha radici: chissà da dove veniamo. Le radici le germiniamo di giorno in giorno. Chi vive e non vegeta le getta rigogliose, chi non ama la vita le dissecca sul nascere. Io non mi sento radicato in nessun luogo, né a Bologna dove sono nato, né in Friuli dove ho conosciuto giorni chiari e altri scuri, né a Roma dove ora vivo. (...) Partendo dalla realtà talvolta mi sbizzarrisco nell’utopia, ma so che devo tornare a terra e camminare tra cemento, fango e polvere”. Ciò che conta sono le (riposte alle) sfide della vita e dell’epoca che stiamo vivendo, che vanno viste con gli occhi di chi cammina “tra cemento, fango e polvere”, facendo memoria anche delle donne friulane, quasi sempre in famiglie numerose e povere, che lo hanno fatto per secoli, lavorando nei campi o in montagna, nelle fabbriche, come sarte e magliaie, come staffette partigiane, a piedi o in bicicletta, con centralità e protagonismo dimenticato.
A partire dal mio essere donna (in termini macro-economici è il primo determinante di diseguaglianza) e professionista che si occupa di marginalità, in un’epoca in cui la crisi sociale ed ambientale colpisce donne, giovani, precari, discriminati perché “diversi”, migranti, è mia convinzione che tutto cambierebbe se le decisioni politiche partissero dalla prospettiva dei poveri e impoveriti.
Crisi sociale è certamente la crisi demografica e del mercato del lavoro, già ben descritta da altri, ma è anche il Rapporto Oxfam 2023, uscito pochi giorni fa, in cui l’aumento delle iniquità generazionali e delle differenze di genere va a braccetto con il fatto che in Italia a fine 2021 la ricchezza nelle mani del 5% più ricco degli italiani era superiore a quella detenuta dall’80% più povero. Sta crescendo la povertà, sia relativa, sia assoluta. I nostri politici tendono a fare demagogia: le varie misure una tantum sono un’ottima campagna elettorale per queste elezioni regionali alle porte, ma non risolvono certo i problemi dell’impoverimento, perché il tema è orientare in modo equo una politica socio-sanitaria efficace, senza inseguire sempre e solamente l’emergenza nell’emergenza, come avvenuto durante la pandemia e come si tende a continuare a fare. Durante la pandemia si è faticato molto per portare all’attenzione i bisogni e i diritti degli invisibili (i migranti, i non raggiunti da misure sanitarie e sociali, gli ex detenuti, i neomaggiorenni ecc.), perché non veniva data importanza alla partecipazione circolare. Ancor prima dell’operatività, serve la sensibilità all’ascolto.
Tre quindi gli auspicabili passaggi fondamentali. Il primo riguarda un’azione a livello organizzativo, con una sanità pubblica di prossimità (che non c’è) che includa un lavoro sociale e di rete, l’offerta attiva e il coinvolgimento diretto delle comunità di riferimento. Il PNRR ci offre degli strumenti, vedremo se sapremo usarli. Il secondo è quello di spostare i margini della fragilità. Questo è compito di politiche di inclusione in senso ampio (per esempio, una nuova legge sulla cittadinanza, politiche di conciliazione, il contrasto al lavoro nero, percorsi d’accoglienza e integrazione) e di una riorganizzazione dei servizi socio-sanitari che consideri la parte di popolazione socialmente fragile non una eccezione, ma una sfida per l’equità a favore di tutti e tutte con, ad esempio, una rete di servizi elastici e a bassa soglia. Il terzo passaggio è convincere la politica, i decisori e i dirigenti del valore e del senso della partecipazione, che non va vista come un ostacolo: solo con la partecipazione delle diverse comunità in forma ordinaria si possono garantire migliori percorsi e quindi maggiori tutele, e in situazioni di emergenza è il modo più efficace e attento per riuscire a intervenire dove c’è invisibilità di persone e di bisogni.
Il nostro sistema sanitario è sofferente, lo è da anni e non solo per una carenza di risorse economiche, ma anche per una scarsa sensibilità, da parte di chi la dirige, ai temi che abbiamo detto. Oltre a cambiare prospettiva, dovremmo cambiare l’impostazione del sistema: dall’attesa all’iniziativa, dal centralismo al territorio, dal decisionismo alla partecipazione. In questo modo tutti, anche i più deboli, coloro che stanno ai margini, invisibili ai servizi sanitari, alle campagne di prevenzione, e anche gli invisibili alla società possono diventare protagonisti di percorsi di tutela e di salute. Assistiamo infine a un’impotenza diffusa (acuita in Friuli dal nostro essere spesso sotâns di fronte al potere di turno), a un senso di perdita di controllo e potere sulle proprie vite, che alimenta frustrazione, alla tendenza a vivere alla giornata, ma anche ad un’enfatizzazione dei poteri degli altri: “è colpa dei politici, di Roma, della Regione, tanto non possiamo farci niente, decidono tutto loro”.
Per cambiare prospettiva bisogna agire, agire con cura, ma osare dosi di sana conflittualità, di leggera ma appassionata trasgressione e fantasia, di esercizio del proprio limitato potere, che implica spesso denuncia delle situazioni che provocano inutili sofferenze o ingiustizie. La mia esperienza con i migranti, con i detenuti, con i disabili, con chi ha problemi di salute mentale mi suggerisce l’urgenza di affermare che solo attraverso la fiducia nell’altro, nel diverso da me, posso essere libera, anche a livello politico: non è sufficiente difendere le cosiddette «libertà individuali», bisogna concepire la libertà in un quadro politico e sociale solidale, di effettiva corresponsabilità. Non è infine possibile alcuna convivenza tra diversi, se non riconosciamo la centralità delle donne, sia simbolicamente che nel discorso pubblico e se non creiamo spazi per le decisioni partecipative e se non decentralizziamo il potere. Ogni volta che ciò accade – per esempio in gruppi auto-organizzati – le donne esercitano una leadership naturale, sia da sole che in modo condiviso. Cominciamo da qui. Prendiamoci la parola e lo spazio politico per farlo, rendendo il potere un verbo più che un sostantivo. Solo così sapremo essere il cambiamento che vogliamo vedere nella nostra Regione.
Anna Paola Peratoner